Rosaria Lo Russo è stata chiamata, dall’Istituto Italiano di Cultura di Melbourne, a curare un’antologia di poeti italiani.
Nell’antologia saranno presenti: Antonella Anedda, Gian Maria Annovi, Maria Attanasio, Franco Buffoni, Dome Bulfaro, Maria Grazia Clandrone, Massimiliano Chiamenti, Florinda Fusco, Marco Giovenale, Paolo Fabrizio Iacuzzi, Vivian Lamarque, Lo Russo – Maleti – Bettarini, Alessandro Raveggi, Lidia Riviello, Massimo Rizzante, Massimo Sannelli, Marco Simonelli, Maria Luisa Vezzali, Edoardo Zuccato.
Questo il mio “strano” testo incluso. Ultimamente, con un libro di poesie in revisione per prossima uscita, e due progetti di romanzo in gestazione, mi vengono così…
MIO NIPOTE, D’ANNI TOT, RISPONDE RIPETUTE VOLTE ALLA DOMANDA.
A Rosaria,
Cavolo bianco fiorito,
ho dedicato a mio nipote,
d’anni zero,
una poesia ignobile,
pomata da zione,
sulle virtù
della maturazione.
La risposta
fu l’esplosione,
del cavolo
gli restarono le foglioline,
tra le gengive.
Cacciatore d’anni quattro,
trasfigurava le tigri,
in Savane inquietate di èsse,
serpi striscianti,
fra i lanicci del salotto,
tra gli stecchi di Viale Zara,
deretano del mondo, Milano.
Imparò poi a domare le bestie,
drizzando il coltello di lingua,
gli animali di pezza asciugalacrime,
non li portava con sé,
per premura di quell’arma da taglio,
niente fantoccio tenero,
sotto l’ascella bagnata,
fasciato d’adulto
all’alba di latta milanese,
solo roba tozza, seriosa,
spigolosa tra i palmi,
slogabile.
Nell’uggia milanese,
elefante allappato,
mio nipote d’anni sette,
non ha più una foglia, una èsse,
nelle lunghe auto lugubri
come unghie finte,
con il cruscotto infiorato
di deodoranti, di led, di radio,
che fanno burle in lombardo,
a nonne lombarde,
appagando e chiudendo
il circolo incatramato,
del lugubre lombardo.
Lo portano
alle Elementari,
nelle piroghe motrici,
quando piove a scrosci,
lo confessa cicatrizzato negli occhi,
vede ancora i baffoni,
del lucente felino rampante,
è in cerca di cibo
per le pance dei cuccioli,
non si dà pace fra le piroghe
che guadano scontrose,
la pozza immasticabile
dell’ingorgo.
Sulle scale marmate
dell’Elementare,
l’italiano ciondola,
e ci porta figli, a scuola
come dal dentista,
a cavargli una carie,
a rifargli la zazzera,
come dal parrucchiere,
piuttosto che a migliorare qualcosa:
imparano a stare dritti
sui gomiti della grammatica,
a non spasticarsi di sillabe,
a sputare le foglioline, le lische,
a non far caccia di frodo in salotto,
a tenere la bocca semichiusa,
cadetti immacolati.
Guardia bionda
di una lingua che gli cresce
pigra e severa, in gola,
come giglio pungente,
mio nipote fa capannello
coi suoi minuscoli eroi,
li tiene in un palmo della mano,
irrigato dalla felicità subitanea
di uno scambio:
si passano aggeggi robotici,
da distruzione mondiale innocua,
coi suoi amicini paonazzi,
accondiscendenti, giallini,
mangiati i denti dal vapore gelido,
ossuti sotto i piumini spelati,
appena moderni, o cinesi.
Si spingono albanesini,
italiani del 1860,
zigomi tostati
di chi non ha bandiera,
né di callo, né di sangue.
Un albanesino gli frega
l’aggeggio robotico di scambio,
di virtù, si apre nero
il deretano del mondo:
alcuni genitori pigolano,
si trasformano organici,
preparano, puntano le bocche.
“Ah, vedi”, s’ingolfano,
“ah, ecco” tossicchiano,
“anche da piccoli” spillano,
i robottoni genitori,
sparano il razzo più lucente, atavico,
che strepita in aria.
(Come se un trapano unto,
sudicio di trivellazione,
gli maledicesse
gli ingranaggi, a sabotaggio.)
Sprintano verso l’aula,
sputacchiano le èsse ovunque,
l’albanesino e mio nipote,
proteggono il branco,
spelano assieme ai piumini,
felini in una selva di consonanti,
si accucciano sotto i banchi,
le regole grammaticali alle pareti,
prede da addentare,
tirare giù nella corsa dalle cosce,
in un derapare sanguigno,
per far capire la selezione della specie,
e dove si sta parando.
Non c’è più alcun poema
sulla maturazione,
pomatina scaduta da zione,
che li trattenga dal farsi male,
sputacchiare, spelare, maturare.