[A giorni esce “Nuova prosa”, n. 53-54, quadrimestrale di narrativa e saggi, a cura di Luigi Grazioli. All’interno: il mio racconto “La strategia dei nostri oggetti paterni” – ecco un estratto]
La maschera di lupo bianco mi calza a pennello, sia sul davanti che sul dietro. Dimostra il fatto maniacale che nostro padre abbia preso le misure della mia testa con un trucco, nel sonno. Forse grazie alla governante dalla faccia spugnosa che mi mandava a spese sue la mattina presto alla domenica. Rosa rassettava furiosamente l’orrenda debacle di frammenti spaiati della mia stanza-officina, non potendo sceverare tra oggetto d’arte e spazzatura ritrosa. Nella foga, Rosa la governante ha preso però meticolosamente le misure del mio cranio, mentre io me la russavo come un pargolo stonato. L’espressione del muso di questa maschera, tutt’altro che famelica, anzi assopita e po’ mogia, non è però quella che avrei preferito. Se avessi potuto scegliere, ovviamente. Deve essere l’espressione del lupo bianco dopo aver corso, ululato molto, disperatamente in cerca di cibo, senza conquista di prede. Un lupo bianco sperso, l’equivalente della pecora nera, ma significativamente lupo. Piuttosto rassegnato all’idea di farsi grattare sotto il mento da un padrone mai ipotizzato al limitare della steppa.
Se ci respiro dentro posso odorare il trattamento utilizzato per la smaltatura. Mi fa capire, visto anche l’intaglio approssimativo degli occhi, che la maschera è stata prodotta da poco, e in tutta fretta. L’idea può essere venuta a mio padre, di colpo, come un ictus. Ha mandato a far produrre, dal primo artigiano pescato a caso sulle Pagine Gialle, la maschera, le maschere. Il lupo, al più presto!, e la giraffa. La testa di giraffa marrone di nostra sorella Sara, che si allarga sulle orecchie in zigomi smaglianti e spigolosi, e che lei deve calibrare nei passaggi più stretti e affollati, si staglia nello stuolo grigio di persone venute a salutare per l’ultima volta nostro padre. La giraffa squaderna i denti grandi come medaglioni in un modo presuntuoso e infantile. Sara, sotto il mento della giraffa, è affascinata tutta in una calzamaglia finissima, ma ti rendi conto che, con la testa di giraffa su quel mimo provocante, le si toglie di dosso la malizia di sempre, di quei reggiseni di pizzo, ombelichi voluttuosi e smalti pastello. Nonostante le trasparenze di quella calzamaglia rammendino la visione d’insieme di una quarantenne oramai in allentamento. Lei non può fare a meno di intrattenersi, ora, nella fiumana di politici contriti con mogli e figli cataplettici al seguito, in delle oziose e stucchevoli pubbliche relazioni.
Dovrei ribadire a Sara che il corpo di papà non è una casa in vendita da sciorinare a degli allocchi venuti dalla città a testarne gli infissi e i fornelli. Chissà se un lupo bianco ha paura di una gigantesca giraffa,
o viceversa. Chissà come un lupo bianco russo potrebbe addentare una giraffa africana. L’attaccherebbe, affonderebbe i suoi denti nella carne marrone e stopposa della giraffa? Normalmente, se Sara non fosse Sara, mia sorella biologica senza polpa, mia carne incompleta e rigettata mai masticata, l’attaccherei come una preda qualsiasi, ma con Sara… Mi dovrei inventare di sana pianta la strategia. Il lupo, la giraffa, e il colibrì. Per Riccardo, nostro padre non poteva volere di meglio che affibbiargli una testa di colibrì spennata. Con quella quantità di flaccido che lo porta a vestirsi come un missionario del Sud America, le scarpette di pelle nera sformate, dove puoi notare il rigonfiarsi del pollice che spinge sul nero consumato. Adesso con la buffa espressione schizzata del colibrì, quella chioma esplosa, da sbraitare esploso nell’aria che lascia il suo orrido rimbombo. Riccardo non pare averla presa male. Dico la maschera, visto che l’ha giustapposta con una camicia floreale ben ampia e quasi smanicata, uno scenario calzante per il suo colibrì, una cartografia che permette a chi lo valuta di concentrasi più sul paesaggio che sulla quantità di lardo sotteso, tra le frasche stampate, sul tessuto scadente. Dico la maschera, e non il ritrovarsi esposti tutti e tre, alle Cappelle del Commiato, dopo anni che non ci si incrociava.
Sara, Riccardo ed io li abbiamo affrontati ugualmente, questi anni. Anni artici, in cui ci siamo spinti evitandoci come la peste l’uno agli estremi dell’isola ghiacciata, oltre l’indifferenza di un’amicizia insipida, come un ghiacciolo succhiato tutto assieme, che rimane freddo e insapore, come l’isola stessa. Ora ci tuffiamo oltre quella, nel mare a cubetti ghiacciati dei convenevoli e nelle, chiamiamole così, “pratiche di commiato” per nostro padre. Ovvero, tutti e tre, più una sedie vuota, giorni fa, davanti al notaio più giovane e imbranato del previsto, che apriva le carte con il tagliacarte e ci consegnava le istruzioni con un gesto affettato. Ognuno preoccupato più dell’altro nel manifestare il suo interessamento accaparratore per la memoria di nostro padre. Ognuno più dell’altro nell’avido disinteresse dissimulato per il lungo periodare del suo testamento, che non arrivava al succo, succo economico, del discorso. Io da un lato, a sistemare e spostare le gambe della sedia vuota al mio fianco. A sbalordirmi con gli altri per le condizioni e i condizionali del testamento. Non poteva andare al nocciolo come sempre, nostro padre? Proprio ora si era messo a fare il ciarlatano?
Fiesole, 15 aprile del 2003
Caro Federico,
immagino che ti sarà arrivata la notizia. Nostro padre non ce l’ha fatta. Si è sfatto in una profusione di vomito nella sua camera, la testa reclinata fin dietro il cuscino, tra il cuscino e la testiera. Potrei descriverti il suo gesto tutto arcuato verso l’impossibile, non implorante, quasi imperioso… Scusami, per questo mio vizio di mettermi a scrutare la libertà con cui la forma spalanca la sua sintassi nella vita, seppur nel momento di morte, la morte di nostro padre. Scusami, se adesso, questa mia teoria della scultura, la metto tutta dentro in questa lettera, quest’inchiostro, e la spargo sul corpo di nostro padre. Scusami, davvero, scusami, cazzo. Il notaio t’avrà chiamato, cosa che rende inutile e pretestuoso tutto questo preambolo, o può essere che non t’abbia trovato, o almeno ci dirà così, in tua assenza, mentre ha voluto solo risparmiarsi una chiamata internazionale. Ha invitato a trovarci tutti e quattro a Novoli, in viale Guidoni, 37. Nostro padre è morto nella villa di Fiesole. Ricordi la villa di Fiesole? Quella coi bacchini e puttini alle pareti? Quella con il lavello esterno e la puzza di stallatico, senza nemmeno contemplare un cavallo? Certo che sì. Lo statuario spasmo di nostro padre, in mezzo a quei putti, e le nostre facce non presenti, sui muri, nemmeno in trompe-l’oeil… Sì, voglio dire, non che importi molto, ma, a noi, cosa è successo? Quando è stato il momento esatto in cui ci hanno abraso da quelle pareti? Ci si sbagliava da piccoli, ad essere così uniti, attorno alle sue gambe, attorno alle articolazioni del suo corpo, come i puttini al cospetto di nostro padre? Ci siamo sbagliati, a ribellarci, poco più che infanti, a nostro padre? Lui, in fondo, si è rivelato l’unico collante che ci teneva assieme. Adesso, come fratelli puramente anagrafici, siamo biglie gettate agli antipodi! Cosa si dovrebbe fare, non lo so. Ritornare a giocare tutti assieme nell’atrio col Pongo o con i mestoli della governante polacca ai Tre Moschettieri, che poi erano quattro, e uno pure femmina, nel nostro caso? Ti prego di venire anche tu, per consegnare davanti alla sua memoria quello che devi consegnare. Penso sia giusto per tutti.