Inedito racconto gerontolalico.

Estratto da un racconto, un esperimento sulla anzianità, l’amore erotico e le viscere, con un riferimento onirico a fatti della mia terra. Ancora inedito.

Passo dopo passo, Calogero si aggrappava foglia per foglia, come centellinandole senza alcuno sforzo. Aveva i polpastrelli irritati e verdognoli per lo strofinio. Si era incurvato sempre di più, tanto che avrebbe potuto slacciarsi la cintura con un morso, grattarsi il ginocchio con un canino. Il suo fiasco, unico sostegno e contrappeso della sua camminata sbilenca, si inglobava nella figura come il pendolo d’acciaio di una gru che fa breccia tra le pareti esterne nelle demolizioni. Si trattava di una demolizione anche quella, l’indirizzo al quale rispondeva Calogero era già stato cancellato, le pareti di lì a poco sarebbero venute giù. Viveva da settimane nelle zone circostanti, come se vivere nelle zone circostanti, confondersi sempre più, fosse uno stile particolare e esatto di vivere e procedere verso il baratro. Si squamava i piedi di galle nei campi, tra le boscaglie peciose e le radure, divellendo pruni e corbezzoli, ma mangiando solo il resto delle salsicce piccanti avanzate del Natale appena trascorso. Invocava la sete, che lo invadeva come un risucchio d’ossigeno aspro sulla lingua. La sete era la benzina che lo muoveva all’inverso, infatti era la boscaglia circostante, nelle sue modulazioni, increspature, nel suo odore di cenere e nepitella, che lo trascinava.

Fino a che, quella notte agghiacciata, trovo luce e calore a Scandicci Alto. Una luce flebile, da sgranare gli occhi, lui acquattato, mentre l’aria e le foglie indicavano la pioggia imminente nel loro tramestio finissimo. Pioggia invernale, ora blanda, piaga annunciata della sete che lo conduceva, dal quale quella luce pareva prevenirsi accucciata dentro ad un antro naturale della collina, tra le frasche e i rovi. Lì nel mezzo, la luce faceva respirare un pentagono arrossato, anzi lo illuminava e poi vi ci si richiudeva sopra, come in un’operazione meticolosa. La luce ansimava, sfaragliava, gorgogliava nel buio. Attorno alla luce, oltre al pentagono che respirava, si potevano intuire movimenti, uno scalpiccio di piedi, uno stringersi e spezzarsi di arbusti. La luce e il pentagono erano qualcosa in evoluzione. Anche perché all’improvviso tutti si moltiplicò, si riverberò in una specie di ragno bianco, con sempre più arti, quando la sete di Calogero spariva e l’occhio si stringeva nella visione, ingrossandosi tra i rami di un leccio dove ora si era esposto per avvicinarsi. Il ragno mugolava, piangeva, forse stava mutando. La luce era sulla sua testa e quell’organismo pareva contorcersi su quel pentagono.

Il ragno però si scompose. Erano due donne, due giovinette paonazze per il freddo, di quelle appena sfogliate dalla adolescenza, la pelle appena mutata e graffiata dai rovi. Si contorcevano, rivoltate l’una sopra l’altra in senso opposto, una almeno visibilmente adesso, con la lingua di fuori, a leccare il pentagono albuminoso dell’altra. Ora erano invisibili, perché quella di fronte allo sguardo di Calogero, puntava dritta la luce in testa sugli occhi di lui. E si alzava, lo indicava. E l’altra giovinetta, ossuta come era ossuto e spigoloso il suo sedere, mostrò le righe delle schiena come le gibbosità di un lavatoio, accucciandosi e coprendosi come poteva, con i maglioni sparsi per terra. Anche lei aveva una luce in testa, come quelle dei minatori.

Le due minatrici, paonazze ancor di più, si stavano cercando l’un l’altra nelle proprie grotte. Quella grotta che si apriva nel pentagono. Tanto che sarebbero riapparse, identiche come erano, senza penetrarsi, dall’altra parte della grotta, in un’insipida ricognizione. Il mostro-ragno abominevole lanciava le sue armi, i suoi berci acerbi, le sue pietre. Calogero si dette la spinta dall’altra parte, con in testa l’amara disillusione delle insoddisfatte minatrici apparse l’una all’uscita della grotta dell’altra.

Cercò di pulirsi la testa da quella contorsione, con il volo radente che impegnava ancora Angiolina, forse quasi arrivata nel Canadà. L’Angiolina che planava su quelle superfici di pietra ghiacciata e mute macchiate di laghi viola, che Calogero si immaginava controllassero e tenessero immobile dittatorialmente nel tempo il Canadà da secoli. Un Canadà perlaceo, dove l’Angiolina arrivava, saltava sulla pista d’atterraggio naturale, toccava terra, generava del bene con arroganza, come solo lei sapeva fare, e risaltava in aria con le sue masse gommose che si piegavano alla gravità. Questo poteva vedere Calogero, strappando l’erba di un fosso, e ansimando, mentre le minatrici mettevano in moto dei motorini elettrici e modulavano il ronzio elettrico come stessero ancora imprecando contro di lui.

I laghi del Canadà sono dorsi di balena che aspettano la punta del piede di Angiolina per entrare in ebollizione. Sono laghi, per intero, e non hanno sete, non possono avere sete. E non hanno fame. Lui non avrà fame, in futuro. In quel momento però c’era la sete e la sua piaga, la pioggia battente che grondava dalle folte sopracciglia di Calogero diroccato. E che dilavava il coniglio della luna. Lo cancellava in un fuga nell’erba umida.

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