Un inedito poetico scritto ex abrupto, dedicato al vulcano Eyjafjallajökul.
PRECE NERA.
Il vulcano d’Islanda ha soffiato con zelo
la prognosi, ha cosparso il suo velo,
scialle di polvere calda sul Continente
sclerotico, ora alza gli occhi rossigni
dei suoi vecchi tinti, in groppa a giovani stinti,
la pellicola copre i morticini sempreverdi
con una palpebra fumogena di pietà subitanea,
non scorgono più oltre i tetti, anche le antenne
del Vaticano hanno casini a curarsi le ossa
dai reumatismi costanti, oramai borbottano fra sé
e si scaricano tutti, non trovando la prese giusta,
due, tre buchi:
inglese, italiana, tedesca, francese.
L’apocalisse mai sperata islandese, lo scoppio,
l’assestamento sulle monovolume a rate,
sulle transenne, le baie mediterranee e le guglie svizzere,
un cielo brontolone raccomanda bene i propri figli all’Europa,
pulviscolo a cui tutto torna di cui tutto si ciba,
tossisce il Presidente, tossisce l’aereo presidenziale,
Europa a lavoro contro se stessa da anni,
il toro nero cavalcato di protervia è un toro meccanico senza monete,
sulla sella si sta a guardare i muscoli
in palestra sulla vetrata, mentre la canizie giunge
a irrigare le tempie, la vena si fa in rilievo sul bicipite,
la strada si fa bigia di smania islandese, sbotta il vulcano,
e Europa si sveglia un giorno terra di vulcani, e di pece:
l’ultimo sbuffo prima della sparizione del Neanderthaliano?
In questa primavera europea spinge il monocromo nell’arte,
la tendenza asfissiante della moda berlinese,
una vestaglia posticcia sugli oggetti, sui trench, come
concezione aggiornata dell’atrofia confortevole al potere.
Non si tratta di gettare oramai gli ormeggi della rappresentazione,
quanto accettare la decisione della assoluta
e assieme relativa vanità del tutto,
Europa terra di vulcani, si sveglia una mattina,
e non si sveglierà più.
un mio speciale encomio va a tutti quelli che scrivono il nome del vulcano senza chiamarlo “l’impronunciabile”
e buon testo, anche