Riporto un testo breve e inedito, letto ieri sera in occasione del ritorno alla vita (letteraria) mondana (pare). Siccome sembra che a qualcuno tra il pubblico sia piaciuto molto, lo rendo disponibile e spiego: fa parte di un nuovo progetto di scrittura che si ambienta in luoghi ospedalieri.
Qui la voce narrante in prima persona tenta di descrivere in absentia l’esperienza di un’anestesia totale.
COSA ACCADE DURANTE L’ANESTESIA, A PARTE NIENTE
Cosa accade al tuo corpo durante l’anestesia, a parte niente?
L’anestesia richiama, appena iniettata, tutta una serie di stati intermedi.
Il tuo corpo s’affloscia su lettino, mani armeggiano attorno a spalle, cosce, pube, cavità, con bisturi, cannule, altri alambicchi, armi. Sei campo di battaglia. Mentre una ad una si spengono, sotto le tue palpebre, le finestre del piano dove ti trovi, in circolo, i finestroni dei corridoi dell’ospedale, a domino, i semafori, le auto sul cavalcavia si spengono, gli Appennini, tetri là fuori si afflosciano, si spengono. Tu affondi come una barchetta in mezzo alla stanza. Esteriormente sei corpo disponibile al taglio.
Il sangue sanguina, l’elettricità elettrizza, i nervi s’assentano, liberi di non dare conto. L’unica tua forma d’esistenza è il dolore come sorveglianza alla vita. Solo che non c’è più quello.
Così cominciano ad arrivare in fila, i tuoi creditori, i tuoi debitori.
– Buonasera, signore. Finalmente.
Sei corpo vulnerabile al passato.
Arrivano prima quelli a cui hai salvato la pelle.
Arriva il bagnante di uno scoglio bagnato.
– Buonasera, signore. Ricorda?
Arriva il bimbo davanti allo scaffale troppo impilato.
– Che spavento, signore, la montagna di biscotti.
Arriva la nonna sotto al pino del parco in un giorno particolarmente ventoso.
– I giovani come lei andrebbero premiati con una medaglia al valore.
Hai teso la mano, hai alzato il telefono, hai detto il loro nome, hai fatto una sterzata, hai disostruito uno sterno, hai anche solo strizzato le guance sul bus, occhiolino e via, verso una che era già pronta alla rupe. Nella riconoscenza, si aggrappano al tuo corpo-barchetta, lo cullano, offrono paroline dolci.
La fila di debitori è esigua: il loro canto condannato alla smemoratezza. Dietro, a valanga, spintonano già i creditori, gli avversari, amanti, ex, giocatori di tennis, portieri, cicloamatori, omosessuali, spermatozoi presi a spallate come colleghi per una promozione: l’agonismo crea memoria.
– Lurido narcisista figlio di buona donna incallito baro e egoista fedifrago lenone puttano e piazzista e cagazzista e ti ripiglio e ora si ride e ora ti faccio piangere, ed ora vediamo come fa il cavallino arrì arrò… – gnaulano, con il mal di testa dovuto ai denti nel morso rigido.
Prendono la tua barchetta. La vorrebbero affondare ancor più.
Nel frattempo di questa processione come di natanti, i dottori aprono quello che devono aprire come cassetti, questo qui, questo là, succhiano il sangue con le cannule come Fanta, giocherellano con il grasso che esce dalla ferita, che è anche un gran sorrisone ludico.
Conversano come alla guida di un tir, parlando alla radio cb.
– Secondo voi, che tipo è?
– Io, per esempio, gli umanisti, li riconosco dal baffo arricciato, da veri segaioli.
– Dio ce ne scampi e…
– Sua moglie, l’avete vista? Scopabile? Sì-no-boh? Voto? Sette e mezzo, secco per me.
– I corpi anestetizzati mi deconcentrano proprio. La loro espressione severa, mai un sollievo. Cazzo ti credi che te lo facciamo fare a vuoto questo viaggetto, ciccio? – e sventola sotto il tuo naso freddo un bisturi affilatissimo.
Tagliano e cianciano e infamano i dottori, alcuni con il desiderio forse di una gomma o un capezzolo tra i denti, il tempo dei creditori e dei debitori presto passa, passa velocemente come il tempo della gioia, della rabbia, impressioni sulla memoria dei tuoi neuroni. Benché: a te ora si celino, imperatore disarcionato, disconnesso.
Il tempo si fa più lasso: il bisturi prende il suo corso, manovrato da un direttore d’orchestra in una cacofonia studiata.
Il tuo corpo barca è sprofondato giù, molto di più sotto il tavolo operatorio. Buca a prua ecografie e risonanze e referti come pelli che si tagliano e fanno il rumore di una busta di plastica che si tagli. È uno strano tempo di compassione. Di quelli che escono con i risultati in mano e franano sulle scale, di chi ha appena avuto una sentenza di morte dall’oncologo al 3° piano, il regno delle TAC, delle biopsie del 2°, di chi ha visto spuntare suo figlio dalle cosce della compagna assieme a fiotti di sangue e grida, da chi ha visto spirare l’eterno padre invincibile in una smorfia tipo peto sulle labbra. È un tempo che va a rotoli.
Il tuo corpo prende a viaggiare a tutta velocità, navigare nei sotterranei oltre l’ospedale, tra le rapide di un fiume, tra le nazioni e le formazioni. Sbatte barbaro dove ha toccato, cagato, mangiato, succhiato, aggrappato, sfiorato, colpito, morso: ricorda ogni sensazione di amaro, sapore metallico, vomiticcio, lattiginoso, succoso, terroso che ha toccato. Ma, ancora: se le tiene per sé, caro mio.
– Ahi ahi, questo è proprio un baffaccio da segaiolo, caro mio – fa là fuori un dottore.
– Guardategli i polsi, le dita. Ha le stesse rughe dei pianisti – è un altro.
– Io agli umanisti, gli scrittori, gli insegnanti, ecco: gli sparerei alle gambe.
– E se gli stroncassimo un ad una le dita?
– Gli iniettiamo quest’anestesia potentissima sulle mani. Che duri giorni. Poi, dopo due giorni, finito l’effetto, le mani cominciano a dolergli fortemente, fitte lancinanti, da ossa rotte perbenino. Che dite?
I dottori tra le grida e i lazzi e la caccole appiccicate dietro alla tua nuca, farebbero comunque quel che c’è da fare. Piano piano, poi, uno riaccende i tuoi riflettori, un altro ripone i bisturi dopo averli ben sciacquati. Si sbrina il vetro, si riattiva la mente, si spiccica la bocca, si scorge la porta da metà campo. Sei parcheggiato là fuori in un androne, ti manca il respiro. Vedi tua moglie, i tuoi genitori, come se loro ti vedessero dentro a un vaso pieno d’acqua. Tu un pescetto rosso che li guarda. Ti dicono “tutto è andato bene”.
– Tutto è andato bene. Ha visto? È stata una passeggiata! – ti dicono i dottori, assai cordiali, cordiali davvero. – Provi ora a muovere le mani, prima di tutto.