“La prima ha ingaggiato la lotta”, un estratto.

Ripubblico l’estratto di un romanzo inedito, uscito due giorni fa sul blog Sul Romanzo, in un’intervista di Raoul Bruni.

“Le ombre sono simili nella pasta, salvo che per una curvatura quasi geometrica di quella, che si slancia timidamente dai piedi di Marinatos. I contorni, le moine, le convulsioni però sono diverse. Nel bagno, le imposte impongono una luce a spioventi, che graffia spostandosi a tratti sui listelli, come se facesse il giro braccando la casupola in senso orario. L’ombra di lui, che esce dal bagno, e ora pare ricomporsi le spalle e ciondolante trascinarsi verso la cucina, segue il ritmo di quel pendolo, ritraendosi, allarmandosi e poi placandosi in alcuni tremolii. L’ombra di Marinatos invece si stende esterrefatta e circospetta, pia, mantenendo la sua piattezza, attendendo la calma dell’altra e adeguandosi alla luce gialla della cucina, che uniforma quella che vibra nelle imposte dietro le sue spalle. Si incontrano a tratti, le ombre, sbattendo le teste e fondendosele l’una con l’altra, l’ovale di lui e l’arruffata di Marinatos.

La prima ha ingaggiato la lotta.

Dal centro della massa di quello, che ora si appoggia con le braccia alla struttura della porta del bagno, come piantando il suo bacino nel legno, s’emette un suono costante, rumori di un cantiere in lontananza, una pompa che lavora e spurga e tira su fango dalle fondamenta tutto il giorno, e che rimane nelle orecchie degli operai, per tutta la notte. Se Marinatos si sofferma su quel rumore, gli batte nel petto come volendolo spianare. Altrimenti rimane un sottofondo sofferto di costanza. L’ombra di quello ora si stacca dalla porta del bagno e mangia quella di Marinatos, che pare cercare di sfuggirgli.

Quell’ombra è stata svegliata dai singhiozzi del vecchio filisteo, che ha rovesciato tutti gli oggetti accatastati sul tavolo da lavoro al suolo. Il vecchio ha le braccia sfregiate da graffi rossi, a livello dei bicipiti, e le vene ancora pulsano tra quei muscoli gonfiati e sul collo tirato dalle pulsazioni. Lo guarda con due occhi che sembrano due piccole aureole disincarnate sulla via della sparizione, traballanti e stereoscopiche in ogni angolo della stanza a cercare equilibrio. Ne vede molte di figure vertiginose, il vibrare di un ciuffo grigio di Marinatos che fa l’altalena sulle sue labbra, come una lenza che va a pescarci qualcosa, il battito polmonare che si estende dalla cassa toracica fino a tutta la stanza, spezzandosi in alcuni schianti di tosse molto acuti, che rinvigoriscono i rilievi delle vene. Ogni sua sensazione è al contempo una condivisione e una novità, è ovunque, e assieme, di fronte unicamente al vecchio, circondato da una corona spinosa di voci, che non provengono dal suo diaframma.

«Ti cercano, joder… ehm… Juan», gli grugnisce feroce Marinatos, porgendogli un lembo di carta di giornale, dal quale rilegge il nome. La sua voce emerge dal consesso di spine in testa, ringhiante. «La sorte, la puta suerte, vuole che adesso cercheranno pure me. E sai perché? Perché ho trovato te, semplice, joder. Voglio vedere se qualcuno poi mi viene a trovare me, e così via. Mi capisci, joder? Capisci la catena bestiale che mi stai propinando?»

Le frasi di Marinatos sono urti della bocca trattenuti, raschiamenti di gola e un lembo di labbro sullo spigolo destro, che rimane attaccato e si riempie di pappa bianca, filamentosa, pappa che si espande e contrae come un mantice tra le erre e le esse. Quel foglio di carta è un lembo di materia insignificante senza riflesso che contrasta con alcuni brillii e la corona di parole che ancora vortica.

«Dobbiamo andarcene, joder. Tu dalla tua. Io, il nonno che si fida della gente, dalla mia. Non lo vedi che casino, joder, hanno fatto i tuoi amici là fuori?», gli dice insistendo, mentre indica l’esterno.  «Ora cercano di farmi, joder, paura anche con questo annuncio. Annunci che mezzo mondo legge, joder…»

L’ombra di lui tentenna davanti a Marinatos, per un attimo si asciuga. Ha la pelle giallastra, livida, a tratti violacea, le labbra cerulee, come consumate in un atto efferato. Si accarezza un braccio, come incontrandolo per la prima volta, palpandoselo irrealmente.

«¡Vete a la mierda, imbécil!», gli bercia contro Marinatos, aprendo la porta della casa-fortino, e poi dandogli un calcio per spalancarla. La maniglia salta in aria, rimanendo poi a vorticare per terra, come una trottola. Marinatos perde l’equilibrio per il calcio, e cade anch’egli a terra tra lo scatolame. L’altro si mette di spalle alla porta pervaso dalla luce bianca che nel suo fragore nutre l’ombra in contrasto. Si fa imponente e vince definitivamente quella di Marinatos. Poi non rimane che luce, funestata da ancora altri elicotteri che ci sguazzano dentro, aprendola in strappi. E Marinatos, con le spalle abbassate, che gronda della sua sconfitta, infreddolito, schiaffeggiato al suolo dalla disdetta, che tira pugnetti al pavimento. Così si alza e corre via verso il mare, grugnendo.”

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