“Nella hall dello storico albergo fiorentino in via Porta Rossa, dove alloggiava come finalista del prestigioso Premio Von Rezzori, la persona che incontro per prima è la sua traduttrice, Dora Varnai. La squadro subito: vorrei chiederle come ha fatto a tradurre Satantango, un libro ipnotico, senza fiato, che immagino difficilissimo anche in ungherese – non conoscendo la lingua è per me un miraggio ancor più grande. Soprassiedo. Dora è molto disponibile, e si offre per l’occasione come interprete. Poco dopo arriva anche il nostro autore, i lunghi capelli bianchi, lo sguardo glaciale, ma affabile, la voce pacata: lui stesso come i suoi libri, un lungo ininterrotto discorso, penso.
Ho conosciuto Krasznahorkai come autore con Satantango solo un anno fa, il suo nome era flebilmente associato a Bela Tarr, regista apprezzato ma mai tanto amato. Quel romanzo l’avevo preso in un’edizione americana, costellata di citazioni in copertina come fosse la custodia di un film: roboanti commenti di Susan Sontag – che in realtà come Zadie Smith si concede un po’ a tutti… – e poi uno dei miei alfieri, W. G. Sebald. Non potevo trascurare un romanzo con un apprezzamento di Sebald, il quale rimandava a sua volta a Anime morte di Gogol’, in assoluto uno dei romanzi che ho più amato e riletto. Il tempo libero estivo aveva permesso una lettura di Satantango in inglese che così come il suo stile scorreva di parola in parola dando l’idea di una sorta di dormiveglia liturgico: una musica dissonante e oscura che si ascolterebbe nella kocsma del romanzo, la bettola sdrucita e cigolante, innaffiata di pálinka, coi suoi personaggi depravati e straccioni che si accoppiano o azzuffano tra di loro. Quella bettola che è il cuore della comunità ungherese senza speranza del romanzo, allarmata e eccitata ad un tempo dall’avvento di un falso messia, Irimías, e del suo sgherro Petrina. Un romanzo che mi ricordò da un lato un Beckett senza algebra e più numinoso, e un Gombrowicz senza troppa canzonatura, che danzava come attorno a un gorgo scuro, con la sua struttura tanguera, di sei capitoli-passi avanti e sei capitoli-passi indietro, fuga da qualcosa di stabile e terribile a un tempo.”