Chiunque conosca la fatica di fare romanzi, che la conosca come e sicuramente meglio di me, saprà che ogni libro ha molte vite al suo interno. All’inizio è un’illuminazione, poche righe sbiadite su di un quadernetto mangiato dalla salsedine o dal caffè, l’abbozzo di un personaggio che è quasi più un ritratto di linea che di senso, o un incipit che riletto non conserva le stesse emozioni e fa pietà. Poi inizia la faticosa china della scrittura, una volta decisi come il kamikaze quando tira giù la cloche e prende la mira sul bersaglio, tutt’uno con il suo desiderio e la sua morte: i pomeriggi passati a fissare il muro, gli altri passati invece a passeggiare per il corridoio di casa o le capitali del mondo, immaginando e sempre solo immaginando monologhi folgoranti o dialoghi cuciti come sulla seta, i capitoli poi che di contro sgorgano veloci, parendo rivelare un senso che svanisce la settimana dopo. Infine, se si è fortunati, dopo decine di stesure personali, stremati da un qualcosa che è divenuto così Altro da mangiarti la testa ad ogni passo, diamo via libera al Minotauro di divorarci il corpo per completo. E non è finita lì, sia mai: la consegna all’editore, il misto di terrore e liberazione, le prime risposte dell’editor, tra pacche sulle spalle e necessità di uno sguardo obiettivo come di un’ostetrica che non si abbandona a facili commenti sul bambino, e non potrebbe. Iniziano così mesi e mesi di revisione, di spostamenti, di smottamenti, ai quali partecipano molte voci e molte mani, fino al raggiungere un bel Frankenstein che nasce da una polpa che ci pareva perfetta e invece era cosa morta: si può fare!, esclamano in coro in redazione. E ancora, lì, non finisce.
Il libro, tutto azzimato, si incammina nelle catene della distribuzione, lotta coi denti per sopravvivere sullo scaffale qualche mese, avrà i suoi seguaci e i suoi detrattori, riceverà pacchi di recensioni che non sposteranno di una virgola le sue vendite, e venderà quel venderà chissà per quale strana equazione quasi sempre imprevedibile ed è quasi consigliabile non prevedere niente. Se sarà fortunato, diventerà veramente libro completo, come dice Ali Smith: ovvero sarà tradotto in altre lingue, di nuovo tagliuzzato, rimpastato, a sé estraneo.
Da qualche anno, la mia fatica di fare romanzo è stata il #GrandeKarma, un romanzo sulla vita unica di Carlo Coccioli, che Bompiani ha voluto dopo aver letto le prime 30 pagine scritte di getto, e che ha lavorato con me con attenzione e amore per più di un anno, tra consegne e bozze varie. Attorno a lui, molti erano i motivi programmati per festeggiarlo. C’era la gioia raddoppiata di essere al Salone del Libro e di essere con questo romanzo, c’erano tante presentazioni in libreria già fissate con alcuni librai del cuore e moltissime in corso di programmazione rimaste lì appese. Molto probabilmente dovremo rimandare un po’ la festa, e navigare a vista ancora, come fanno tutti quanti adesso in Italia d’altronde, Carlo, nello scrivere o non. Ora che quello che tu chiamavi scherzosamente “il ditino di Dio” ti ha fatto lo scherzo più grande, pure da morto: addirittura una pandemia!, per rimandare la tua sola festa… Noi però non ci perdiamo d’animo. La tua festa, e pure un po’ la mia, si farà molto molto presto, promesso.
p.s. l’illustrazione di questo posto non è nella copertina del libro, ma era nella shortlist delle possibili, o meglio la seconda classificata. È di Rachel Levit, che è assai brava. Ma alla fine ha vinto un’altra, e ve la farò presto vedere.